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Un'amicizia di Silvia Avallone - Rizzoli (2020)

UN’AMICIZIA

Di Silvia Avallone, ed. Rizzoli 2020

 

 

Il titolo e la copertina scelti rimandano inequivocabilmente al tema dell’amicizia, nel dettaglio a quella tra due adolescenti e poi adulte – Elisa e Beatrice – tra gli anni Novanta e il 2020.  Scuola, motorini, primi amori e conflitti genitoriali sono i temi inevitabili che la loro età calamita nella storia.

Ma siamo anche negli anni di una parabola diabolica e non reversibile: quella dell’avvento del web, dei social, del sempre connesso. Elisa e Beatrice vengono travolte in pieno da questo tzunami digitale e una di esse – Beatrice –  saprà cavalcare l’onda e farne strumento di affermazione di sé – ma quale sé? – , mentre l’altra, Elisa, ne resterà sempre distante, incapace di  conciliare l’amore per la letteratura – il dicibile – con l’immagine da riprodurre in serie.

In una narrazione vi è una stretta relazione tra contesto e personaggi che vi agiscono, e di norma il contesto si fa territorio espressivo funzionale ad essi. Nella storia di UN’AMICIZIA la protagonista assoluta è la società dagli anni Novanta ad oggi, quella dello sguardo rovesciato verso sé, anziché verso il mondo, e che si manifesta al lettore attraverso le vicende delle due amiche: Elisa e Beatrice. Elisa è l’occhio critico – non a caso è lei l’io narrante – con cui guardare la vita e raccontarla;  Beatrice è l’icona più seguita, ambita, grazie a un sapiente gioco di ripetizione dell’immagine di sé, depauperata del tempo che scorre  – rughe e brufoli non imperano sul suo volto, immutato – e dei drammi che la investono. Proprio perché la sua immagine non restituisce la sua realtà, Beatrice Rossetti è la negazione di se stessa.  

Ceci n’est pas Beatrice Rossetti, direbbe Magritte. Nemmeno la sua pipa rappresentata lo era, una pipa: l’immagine di una pipa priva la cosa della funzione per cui è nata, quella di essere fumata. In egual misura, la Beatrice Rossetti delle fotografie non corrisponde alla Beatrice reale, poiché l’immagine iterata e imitata sottrae le caratteristiche proprie a ogni individuo: l’unicità e l’irripetibilità. Ma mentre l’arte dei surrealisti  – la pipa di Magritte – intende dimostrare la non coincidenza dell’immagine con la verità, a sostegno della verità, oggi si assiste a un capovolgimento di prospettiva: l’esaltazione del sogno ai danni del reale. Il reale è imperfettibile e l’imperfettibile disorienta, il dolore spiazza, quindi ricreo il reale come mi piacerebbe che fosse. Scansando con cura fuori dall’obiettivo la scenografia in rovina.

Dopo oltre quattrocento pagine di apologia della scrittura e dell’argomentazione critica ai danni dell’immagine patinata e stereotipata, il romanzo si conclude con un quesito: davvero la vita esiste se viene raccontata? Se viene affidata alla narrazione? O c’è sempre altro che sfugge a tutto, anche alla scrittura?

Un’amicizia. Buona lettura.