La narrazione di Bianco è il colore del danno scorre su due piani pericolosamente inclinati: uno personale, l’altro politico.
Quello personale affronta il tema della malattia; quello politico affronta il tema della malattia all’interno di uno stato che si vuole sociale.
Chi si ammala è la protagonista e io narrante, Francesca. Si ammala di una malattia che si manifesta col bianco alle risonanze alle quali Francesca è regolarmente sottoposta. Dal momento in cui si ammala, Francesca conosce le maglie della sanità pubblica e il valore monetizzato del paziente: chi paga, può curarsi ignorando il calendario, le attese, i turni. Chi non può pagare, attende il proprio turno, sperando non arrivi troppo tardi.
Si ammala Francesca, ma si ammala anche la sua famiglia. Sua madre protesta attraverso una rinuncia laica: non mangerà più gelati; suo padre sceglie il silenzio perché, se nomina la malattia, la crea, e forse egli non è abbastanza forte.
Accanto a questi due piani inclinati, se ne inserisce un terzo, in realtà preesistente ai due: la maternità.
Francesca diventa mamma prima, scopre la malattia poi. Una gravidanza voluta, cercata, ma che poi ha dovuto fare i conti con la Francesca precedente: libera, padrona del suo tempo, dei suoi silenzi, della sua esistenza di giornalista inviata di guerra.
Quando i timbri sul suo passaporto saranno apposti poco dopo la nascita di Pietro, succede che il Mar Rosso si divide: a destra chi accusa, a sinistra chi rispetta.
Il TEMPO è una costante della narrazione: è nello scatenarsi della malattia in Francesca; nell’attesa del servizio sanitario nazionale, nelle esigenze di un figlio.
E’ il continuo sottrarre tempo che rende la vita precaria, funambola, una perenne sala d’attesa dell’imponderabile.
Bianco è il colore del danno potrà creare facili schieramenti per certe scelte prese e confessate. Va letto solo se si è disposti a congedarsi dal proprio individualismo, personale e politico.
Buona lettura
Maria Giovanna Bucolo